Storia esplorativa, leggende, morfologia della più bella grotta del Gargano

STORIA ESPLORATIVA, LEGGENDE, MORFOLOGIA DELLA PIÙ BELLA GROTTA DEL GARGANO.
“Nulla ha da invidiare questa pur piccola Grotta del Pian della Macina con la regina delle Grotte italiane: quella di Castellana. Nel suo breve percorso racchiude tutte le qualità e le bellezze della maggiore sorella. Le formazioni concrezioniali, i colori, le bizzarrie della natura, le forme e la varietà stalagmitiche e stalattitiche, gli angoli pittoreschi e l’insieme di questa Grotta ne fa meritare un maggior interesse sia dal punto di vista tecnico che da quello turistico”.
Così si esprimeva lo speleologo Roberto Rota, nel notiziario del Gruppo Grotte Milano denominato “Il Grottesco”, nel 1969.
Secondo Luigi Vittorio Bertarelli, geografo e speleologo, nonché fondatore insieme ad altri di quello che oggi è conosciuto come Touring Club Italiano, la scoperta della cavità risale al 1905. Se ne trova traccia scritta in un volume del 1927, catastata presso l’allora Istituto Italiano di Speleologia. Successivamente ci furono varie campagne esplorative, ad iniziare da un certo Col. Della Vecchia, per proseguire poi col ben noto speleologo Franco Orofino, padre della ricerca speleologica pugliese, incaricato dal Comune stesso di San Nicandro Garganico, il quale espresse all’epoca parere positivo per una eventuale sistemazione turistica e paragonando l’ultimo dei tre ambienti della grotta alla famosissima e spettacolare “Grotta Bianca” del sistema carsico di Castellana.
Altre campagne esplorative furono condotte dal Gruppo Grotte Milano e, negli anni ‘80, presero il via i primi lavori, tra cui la realizzazione di una strada asfaltata e un ampio parcheggio. All’imbocco della grotta venne costruita una scalinata per rendere più agevole l’accesso e, per evitare che la gente continuasse a depredare i vari ambienti della cavità, venne costruita una gabbia metallica tutt’intorno all’ingresso.
Dal punto di vista geomorfologico, la grotta si colloca nell’area centro-occidentale del Promontorio garganico, insieme ai territori di San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo.
Questa zona è caratterizzata dalla presenza dei maggiori rilievi garganici, e da una notevole concentrazione di morfologie carsiche. Qui, le acque meteoriche s’infiltrano facilmente nei calcari fratturati ed alimentano la circolazione idrica di profondità.
La cavità prende il nome dal pianoro carsico denominato “Piano della Macina”, appellativo derivante dalla presenza di grossi blocchi calcarei simili ad enormi macine.
Prima ancora che esploratori ed esperti si cimentassero nello studio approfondito della cavità, generazioni di curiosi si lasciavano affascinare da quella modesta apertura che tramite un breve scivolo faceva accedere ad uno stretto e basso corridoio, dal quale erano già visibili diverse concrezioni ed un complesso stalatto-stalagmitico sulla parte destra dell’imbocco.
Il primo ambiente si presenta come una galleria in pendenza, il cui intero sviluppo è caratterizzato da stalagmiti di diverse dimensioni ed imponenti colonne che rendono il passaggio meno agevole e un po’ articolato.
Gran parte degli speleotemi presenti nei primi 20 metri, appaiono di un colore rossastro. Generalmente questo avviene quando il calcare non è puro, il che indica la presenza di minerali residuali nel suolo, come ossidi di ferro e minerali argillosi.
Sulla parete spiccano i cosiddetti “coralloidi”. Forme globulari, ramificate, saldate alla parete da un sottile gambo.
Questa prima camera si conclude con una suggestiva saletta dove il rosso bruno di imponenti stalagmiti contrasta con il bianco latte della selva di stalattiti puntellate sul soffitto.
Proseguendo verso nord-ovest, si attraversa un angusto passaggio e si giunge su un terrazzo naturale che si affaccia su un’imponente caverna.
Si discende lungo uno scivolo-pozzo di circa 18 metri, dove alla base, la cavità raggiunge il suo apice di bellezza. Una sorta di altare pietrificato, ornato da meravigliose concrezioni a canne d’organo che si estendono fino alla volta, rapisce lo sguardo di ogni esploratore che giunge fino a quel punto.
Per gli esploratori più determinati, vi è la possibilità di accedere ad un’ultima camera, tramite una strettoia di alcuni metri, in cui il passaggio è reso difficoltoso dalla presenza di straordinarie vele striate, le quali richiedono manovre sicure e di una certa delicatezza.
Alla fine della strettoia, si accede ad una vera e propria stanza del tesoro.
Stalattiti eccentriche e infiorescenze purissime composte da cristalli di calcite, svelano talenti e doti sconosciute di una Natura incantevole e mai paga di meraviglie.
Come in ogni grotta che si rispetti, anche Pian della Macina è avvolta dal mistero e dalla leggenda. Si cela in essa un fascino antico che ha catturato l’immaginazione delle generazioni passate e continua a intrigare le nuove. Attraverso le testimonianze degli abitanti del luogo, emergono racconti avvincenti che risalgono a epoche remote, quando la Speleologia era ancora agli albori.
Una di queste storie narra di un contadino che, guidato da un misterioso sogno in cui un folletto di nome “Scazzamurredde” gli indicava una precisa località da scavare, si imbatté in una grotta nascosta. Lì, secondo il sogno, avrebbe trovato uno stivale di brigante contenente un tesoro, se avesse avuto il coraggio di entrarvi da solo. Tuttavia, quando il contadino tornò sul luogo con un parente, l’anfratto si trasformò misteriosamente, rivelando solo uno stivale pietrificato e nessuna traccia del tesoro tanto agognato.
Si tratta di una delle tante varianti della cosiddetta “Sciatora”, cioé una leggenda che narra di un tesoro nascosto che solo un folletto poteva far trovare, comparendo al prescelto in sogno e dando le indicazioni precise per poterlo recuperare.
Foto di Giovanni BARRELLA