San Giovanni RotondoStoria

San Giovanni Rotondo: “I ruderi della Chiesa di Sant’Egidio e il lago perduto”

[esi adrotate group="1" cache="public" ttl="0"]

San Giovanni Rotondo: “I ruderi della Chiesa di Sant’Egidio e il lago perduto”

I RUDERI DELLA CHIESA DI SANT’EGIDIO E IL LAGO PERDUTO.

Nel territorio di San Giovanni Rotondo, a circa tre chilometri dal centro abitato, lungo la via che porta a Monte Sant’Angelo, vi sono i ruderi di quello che un tempo fu il monastero di Sant’Egidio.

Questo complesso monastico entrò a far parte delle proprietà di Cava dei Tirreni grazie alla donazione del conte Enrico di Monte Sant’Angelo nell’agosto del 1086. Fu l’abate Pietro Pappacarbone, a capo dell’abbazia di Cava dei Tirreni dal 1070 al 1123, a ricevere il monastero.

È interessante notare che, secondo i documenti a disposizione, la donazione comprendeva la chiesa “incompiuta” di Sant’Egidio in Prato Gargano, terreni agricoli, sette servi con le loro famiglie, una chiesa di Santa Maria della Carità di incerta ubicazione e una chiesa di San Michele che già ai tempi era diruta e abbandonata.

L’atto fu ratificato da Papa Urbano II nel 1089 e, successivamente, da Papa Pasquale II nel 1100.

Tra la fine del XI e il XII secolo, il culto di Sant’Egidio si diffuse abbastanza rapidamente in Puglia, in particolare nei contesti benedettini, spesso associati all’abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni, e lungo le principali vie di pellegrinaggio.

Sebbene molti degli insediamenti dedicati al santo siano scomparsi, i documenti storici, la toponomastica e le rovine rimaste di alcuni fabbricati ci offrono preziose informazioni sulla rete di ospitalità che un tempo esisteva nella regione. Tra queste località figurano San Giovanni Rotondo, Barletta, Giovinazzo, Bitonto e Brindisi.

Un elemento ricorrente nella posizione delle chiese dedicate a Sant’Egidio è il loro legame con l’acqua, come avveniva nella casa madre di Saint-Gilles-du-Gard in Provenza (importante luogo di pellegrinaggio nel medioevo, dove sono custodite le reliquie del santo). Non è un caso, quindi, che il complesso garganico di Sant’Egidio sia sorto in prossimità di quello che un tempo fu il lago di Pantano, oggi prosciugato.

Lo storico e abate Giovan Battista Pacichelli lo descrive così:

“Un picciol lago si forma qui nel territorio di acque chiare, e fredde, che produce soavissimi pesci. Vi ha selve altresì colme di cacciagione. Non molto discosta è la riserva reale de’ volatili e quadrupedi…”

Anche Michelangelo Manicone, circa un secolo dopo, ce ne fornisce una descrizione interessante e piuttosto dettagliata:

“Questo lago si trova situato in una pianura di figura ellittica tra Montesantangelo, e Sangiovanrotondo, da cui piglia il suo nome. Ha tre miglia di circonferenza, è lungo un miglio, ed è profondo sette palmi circa. Riceve le sue acque dalle sorgenti della valle di San Nicola, e dalle altre valli, dalle quali è circondato. È distante dal mare di Manfredonia dodici miglia circa: il perché non ha foce in mare.”

Sembra chiaro che il lago, in passato, doveva essere pescoso, per cui ambìto, tanto da dare vita ad una controversia fra il priorato di Sant’Egidio e il monastero di San Giovanni in Lamis (attuale Convento di San Matteo Apostolo). La potente badia benedettina, in territorio di San Marco in Lamis, contendeva a quella di Cava i diritti sulla dipendenza di Sant’Egidio. La vertenza si chiuse nel 1227, in favore dei cavensi, mentre a San Giovanni in Lamis venne riconosciuto il diritto di pesca sulla quinta parte del lago.

C’è da aggiungere che l’area su cui sorse il monastero, veniva frequentata già molto prima del Medioevo, come dimostra il ritrovamento di tombe romane e l’esistenza di una stazione di posta.

Il complesso godette di una situazione favorevole fino al periodo svevo. Secondo alcune tracce documentali, l’Abbazia di Cava dei Tirreni, poteva contare anche sui cospicui lasciti da parte di diversi abitanti di San Giovanni Rotondo.

Le difficoltà e il progressivo abbandono cominciarono in età angioina. Il casale fu infatti definito diruto in un documento del 1270.

Nel 1613, la chiesa era ancora sede delle funzioni del sabato, e nel 1662 fu sottoposta a una visita pastorale. Fino al 1700, si registra la presenza di un oblato cavense, un tipo di monaco eremita incaricato di custodire e amministrare la struttura. Sant’Egidio rimase di proprietà dell’abbazia di Cava fino al 1726, quando fu ceduto in enfiteusi ai Cavaniglia, duchi di San Giovanni Rotondo. L’enfiteusi è un diritto reale su un terreno altrui che permette al titolare di godere pienamente del fondo, con l’obbligo di migliorarlo e pagare un canone annuo.

La chiesa urbana di San Giovanni Rotondo era solita organizzare processioni dirette verso il complesso di Sant’Egidio, dal forte impatto emotivo nell’immaginario degli abitanti. Tant’è che ad un certo punto cominciavano a svilupparsi usanze che creavano per il clero un certo imbarazzo. Facciamoci condurre dalle parole del Grifa, che descrive questi “rituali” praticati dalle cosiddette “zitelle” della città, e che di solito avvenivano nei periodi di Natale, Pasqua e nel giorno di San Giovanni Battista:

«Peregrinavano il martedì in Albis a Sant’Egidio a piè nudi, si calzavano dietro l’altare maggiore come atto integrale ed insieme integrativo del voto».

L’imbarazzo fu tale che questa forma di tradizione venne espressamente vietata dall’allora vescovo Orsini, poiché interpretabile come una forma di paganesimo.

Del complesso monastico e del casale, è ancora visibile la chiesa, caratterizzata da un impianto longitudinale. Questa struttura misura 28 metri in lunghezza, 6.50 metri in larghezza e circa 7 metri in altezza. Presenta una navata unica e un solo ingresso, adornato da una cornice rettangolare e sovrastato da un oculo.

Il Nardella, originario di San Giovanni Rotondo, nel suo volume di memorie storiche cittadine (1895), scrive:

«Nel mezzo di tante obliate antichità, sorgono intere le mura dell’antica chiesa… La chiesa se non grande, non era però piccina a tal segno da farne desiderare altra più ampia. La sua prospettiva, che chiudesi alla sommità ad angolo retto, ha unica porta, sulla quale vi ha uno spazio rettangolare, il cui perimetro è limitato da una cornicetta; esso pare fatto a racchiudere un’iscrizione, di cui non si scorge alcun vestigio. Alla sommità vi ha un finestrino circolare, la cui cornice non presenta nulla di pregevole… Le tre arcate nell’interno sono di forma greca, però quelle che concorrono, intersecandosi al vertice, a sostenere la cupola, hanno forma gotica. Aveva più altari: di Sant’Egidio, della Santissima Trinità e forse qualche altro. Sotto lo strato di calce, fatto spalmare inconsultamente dall’imbianchino, si nascondono antichi affreschi».

All’esterno si possono riconoscere un portale e probabilmente un’epigrafe. Analizzando l’interno, gli esperti riconoscono fondamentalmente due fasi costruttive. In una prima fase, l’edificio era a navata unica e absidata, con un passo scandito da 5 campate. Nella seconda fase, furono realizzati dei semipilastri addossati alle arcate a parete per sostenere la copertura a botte. La copertura non doveva essere tanto dissimile da quella dell’Abbazia della SS. Trinità di Monte Sacro, a Mattinata, e dall’Abbazia di Santa Maria di Pulsano, a Monte Sant’Angelo.

Permangono tracce di affreschi di notevole pregio, realizzati in uno stile tipicamente medievale. Uno di questi, incorniciato da un bordo rosso, sembra richiamare il miracolo delle porte donate dal papa a Sant’Egidio e trasportate via acqua da Roma a Saint-Gilles-du-Gard. Nonostante l’immagine sia in condizioni precarie, è possibile distinguere il profilo di una porta adornata, con le figure di San Pietro e San Paolo.

Questa tipologia di costruzione trova numerosi paralleli nell’area garganica, come la vicina chiesa abbaziale di San Giovanni in Lamis, sebbene pesantemente modificata, o l’Abbazia di San Pietro in Cuppis, nei pressi di Ischitella.

Purtroppo, il rudere è in uno stato di totale abbandono, invaso dalla folta e aspra vegetazione e soggetto alle intemperie e ai terremoti che periodicamente scuotono il promontorio. Parte del rosone, ad esempio, crollò durante il sisma del 1995. Un’altra delle tante strutture con una lunga e significativa storia, che sembra destinata a scomparire per sempre.

Foto di Giuseppe GRANA

[esi adrotate group="1" cache="public" ttl="0"]