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Nasce a Milano la prima squadra gay di basket d’Italia

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Potrebbe essere curiosa o destare scalpore la cosa, ma in realtà non è così. È nata in Italia, precisamente a Milano, la prima squadra di basket Lgbt d’Italia. Se nel mondo dello sport, e in particolar modo in quello del calcio, ci sono ancora paure e omertà sugli orientamenti sessuali di alcuni sportivi, questa squadra di basket squarcia il velo dell’ipocrisia e gioca allo scoperto. È nata a Milano e verrà celebrata i prossimi 27,28, 29 maggio nel primo torneo internazionale arcobaleno di pallacanestro.

L’idea è di Joseph Naklè, 35 anni, gay, nato a Beirut. “Sono fiero di me”, ha detto al Corriere della Sera. “Sono venuto in Italia e ho creato qualcosa che non c’era, un valore aggiunto. Per tutti”.

Una squadra, dunque, aperta a tutti e vogliosa di ribadire che non ci sono differenze e che anche il mondo dello sport deve abbracciare e sostenere queste cause: in primis non deve ghettizzare e marginalizzare coloro che hanno il coraggio di dichiararsi, ma anche condannare atti spiacevoli e discriminatori che, ancora oggi, si susseguono in alcuni ambiti sportivi. 

Il gruppo squadra capitanato da Naklè è ben assortito. “Siamo molto inclusivi e aperti a tutti: ci sono gay, etero, bisessuali e lesbiche. E di età diverse, dai 20 ai 45 anni. La presenza degli eterosessuali porta grande ricchezza e condivisione: stando insieme si allargano gli orizzonti di tutti”. 

La squadra rainbow è nata anche per combattere stereotipi e per aiutare tutti coloro che ancora non hanno il coraggio di vivere liberamente la propria sessualità e il proprio amore. “Succede che chi gioca con noi – ha continuato a raccontare al Corriere – trovi una dimensione di libertà che fuori non riesce a vivere pienamente. Ma non è sempre così, alcuni non sono riusciti a lasciarsi andare davvero. C’è una storia che voglio condividere, quella di un ragazzo che si è allenato con noi per un certo periodo. Era molto forte, giocava ad alti livelli, ma aveva paura della visibilità del nostro gruppo perché non si accettava. Gli andava bene giocare ogni tanto ma è stata più forte la paura di essere scoperto: non è più tornato”.

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